Illecita divulgazione di dati sensibili e prova del danno non patrimoniale

La Pubblica amministrazione che, in qualità di datore di lavoro, pubblica provvedimenti contenenti dati sanitari di un proprio dipendente senza che tale divulgazione sia retta da fini di interesse pubblico viola l'art. 11 del D.lgs. 193/2006. Nel caso, per chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale è sufficiente lamentare un patema d'animo, essendo sovente le modalità della divulgazione idonee, già per se stesse, a dimostrare l'esistenza di un pregiudizio. È quanto ha affermato la Corte di Cassazione nella recentissima sentenza n. 2034/2012 con la quale ha confermato in capo alla P.A. la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore di un dipendente comunale per illecito trattamento dei dati personali. La vicenda trae origine dalla pubblicazione, nell’Albo pretorio del Comune, di un atto amministrativo con il quale si negava a un lavoratore il riconoscimento della dipendenza da causa in servizio di una patologia da cui era affetto. Tale provvedimento riportava in chiaro, infatti, tutte le informazioni attinenti alla malattia ivi comprese diagnosi, cause, natura ed effetti della stessa. Il dipendente, ritenendo gravemente leso il proprio diritto alla privacy, si era, pertanto, rivolto all’Autorità giudiziaria. Il Tribunale adito, accertata l’illiceità del comportamento della P.A. per violazione dell’art. 2 della Costituzione e del D.Lgs. n. 196/2003 (c.d. Codice della Privacy), l’aveva condannata al risarcimento dei danni patrimoniali subiti dal lavoratore. In particolare, il giudice di merito aveva rilevato la violazione il principio di pertinenza e non eccedenza di cui all’art. 11 del Codice “giacché le stesse motivazioni dell’atto si sarebbero potute egualmente esprimere adottando una modalità di notificazione tale da non renderne possibile la lettura da parte di chiunque”. Aveva, altresì, ritenuto provato il danno non patrimoniale in considerazione del disagio e dell’imbarazzo conseguenti alla diffusione dei dati sanitari in questione nonché della preoccupazione derivante in capo all’interessato “dal non sapere quali e quante persone avevano in realtà conosciuto la sua situazione di salute”. La P.A. aveva proposto ricorso in Cassazione non condividendo le motivazioni addotte in sentenza. La doglianza principale riguardava il danno non patrimoniale: nonostante il Tribunale avesse affermato che questo non poteva essere considerato in re ipsa (sulla base dell’accertamento del solo illecito), tuttavia l’aveva poi riconosciuto senza alcun prova del pregiudizio deducendolo direttamente dal preteso illecito. La Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha invece osservato come i motivi di opposizione indicati dalla parte ricorrente non potessero essere discussi in tale sede: sul punto il giudice di primo grado aveva espresso valutazioni di merito che erano state adeguatamente motivate risultando non censurabili in sede di legittimità. Al riguardo, la Cassazione ha osservato come il Tribunale avesse correttamente accertato la sussistenza di un illecito trattamento dei dati personali per violazione dell’art. 11 del Codice Privacy in quanto la pubblicazione del provvedimento amministrativo ben poteva essere effettuata utilizzando degli “omissis” ove necessario. A parere della Suprema Corte il Tribunale aveva, altresì, ben argomentato riguardo alla prova del danno non patrimoniale. Il Giudice di primo grado aveva, infatti, individuato, nella fattispecie sottoposta al suo esame, l’esistenza di una situazione di disagio, imbarazzo e preoccupazione in capo all’attore a seguito dell’illegittimo trattamento dei propri dati sanitari rilevando che le modalità di pubblicazione delle informazioni che lo riguardavano potevano considerarsi, già per stesse, idonee a dimostrare l’esistenza di un pregiudizio con conseguente diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ingiustamente subito dall’interessato. http://www.privacylawconsulting.com/DettaglioNews.aspx?id=658