Privacy e famiglia: diritti e limitazioni nell'acquisizione e utilizzo delle prove

Il diritto alla riservatezza è un diritto fondamentale della persona, tutelato dalla Carta costituzionale stessa. In particolare, tale matrice costituzionale è rinvenuta da una parte della dottrina nell'articolo 2 della Costituzione, che “garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e da altra parte nell'articolo 3 della Costituzione, che riconosce “pari dignità sociale” a tutti i cittadini. Accanto a tali norme di portata generale, il diritto alla riservatezza è indirettamente tutelato anche da ulteriori disposizioni a carattere specifico, come l'articolo 13 sulla libertà personale, l'articolo 14 sull'inviolabilità del domicilio, l'articolo 15 sulla inviolabilità della corrispondenza e l'articolo 21 sul diritto di libera manifestazione del proprio pensiero. È indubbio, quindi, che lo stesso si collochi tra i diritti fondamentali dell'individuo, ancorati alla Costituzione. Conseguenza logica è che un diritto di tal rango non può subire compressioni o limitazioni neanche in caso di rapporto di coniugio e/o convivenza. In altre parole, il matrimonio (a cui si deve equiparare una convivenza stabile, come ormai pacificamente riconosciuto dall'unanime dottrina e giurisprudenza) non vale ad escludere il rispetto della privacy dei singoli coniugi; il diritto alla riservatezza, in quanto diritto personalissimo, permane in capo a ciascuno di essi. Come ha opportunamente rilevato la Cassazione, la disponibilità del domicilio da parte di più soggetti non vale ad escludere il diritto alla riservatezza di ciascun convivente (cfr. Cass. Pen. 9827/06, in tema di reato ex art. 615 c.p.). Se il matrimonio è unione materiale e spirituale, comunque ciascun coniuge ha il diritto di conservare la propria privacy. Ciò premesso dal punto di vista teorico, nella pratica accade purtroppo molto spesso che un coniuge cerchi di precostituirsi elementi di prova a carico del partner da usare in giudizi di separazione / divorzio / affidamento della prole, oppure faccia uso di dati già costituiti; la questione assume contorni problematici quando tali elementi probatori siano stati ottenuti o comunque trattati in violazione della normativa sulla privacy. Il testo di riferimento è il Decreto Legislativo 196/2003 (cd. Testo Unico Privacy); in primis si deve rilevare che, per integrare una condotta di “trattamento dati” di cui al D. Lgs. Cit. è sufficiente anche la mera diffusione dei dati (cfr. art. 4 T.U. Cit.), da intendersi anche come produzione degli stessi in giudizio. Pertanto, anche tale condotta, laddove effettuata in spregio alle norme del T.U. Cit., potrebbe integrare una condotta punibile. Quindi, ben potrebbe considerarsi responsabile il coniuge che diffonda dati personali del consorte (producendoli in giudizio) in violazione delle norme di cui al D. Lgs. 196/03, se dal fatto deriva nocumento per il soggetto passivo (cfr., in particolare, art. 167 D. Lgs. Cit.). A questo punto è necessario, tuttavia, procedere ad accennare brevemente agli steps da seguire per trattare i dati “lecitamente”, laddove si vogliano poi usare in ambito giudiziario. In relazione ai dati personali, l'art. 13 T. U. Privacy introduce una deroga all'obbligo di preventiva informativa all'interessato, prevedendo l'esonero dalla stessa quando i dati personali devono essere trattati “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”. In questo caso, quindi, venendo in considerazione un diritto anch'esso costituzionale, il diritto di difesa, e di pari rango rispetto al diritto alla privacy, il legislatore ammettere una compressione di quest'ultimo, purché l'esplicazione del diritto di difesa sia effettuata secondo correttezza. In particolare, si richiede che: * i dati oggetto del trattamento siano esatti, da intendersi come precisi e rispondenti al vero; * i dati stessi siano completi, e cioè tali da fornire esatte informazioni, senza estrapolare solo i contenuti utili per una parte; * il trattamento e l'uso degli stessi sia pertinente e non eccedente, e cioè strettamente necessario e non sproporzionato in relazione al diritto che si intende far valere in giudizio. I dati sensibili ( e cioè i dati personali idonei a rilevare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale) sono oggetto di una tutela rafforzata. Di fatti, per poter trattare dati sensibili occorre, oltre al consenso dell'interessato e all'informativa (come per i dati personali), anche l'autorizzazione preventiva del Garante per la protezione dati personali (art. 26 D. Lgs. 196/03). L'art. 26 cit. prevede al comma 4 la possibilità di trattare dati personali sensibili senza consenso dell'interessato (purché vi sia la previa autorizzazione del Garante) “quando il trattamento è necessario per far valere o difendere in sede giudiziaria un diritto , sempre che i dati siano stati trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. Se i dati sono idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale, il diritto deve essere di rango pari a quello dell'interessato, ovvero consistere in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”. Ancora, l'articolo 60 T.U. Privacy, applicabile al caso di dati sensibili idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale contenuti in atti amministrativi, confermando la rafforzata tutela riconosciuta ai dati sensibili, ribadisce che, laddove manchi il consenso scritto dell'interessato, è possibile richiede l'accesso agli atti amministrativi che contengono tali dati solo se “la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”. Per ricapitolare, in relazione al trattamento lecito di dati personali da usare quali prove costituite o costituende: * se trattasi di dati personali occorre il consenso e l'informativa; si può procedere senza informativa solo nelle ipotesi di cui all'articolo 13, comma 5, lett. b) D. Lgs. 196/03; * se trattasi di dati sensibili occorre il consenso, l'informativa e la previa autorizzazione del Garante; si può procedere senza il consenso dell'interessato solo nell'ipotesi di cui all'articolo 26 D. Lgs. 196/03. Ciò premesso, quid iuris dei dati trattati in violazione delle disposizioni su indicate? L'articolo 11 D. Lgs. 196/03 sancisce l'inutilizzabilità di tutti quei dati trattati in violazione delle norme di cui al Decreto citato. Tuttavia, in relazione alla possibilità di utilizzazione di tali dati in ambito giudiziario, il legislatore ha introdotto una disciplina particolare, contenuta nell'articolo 160, comma 6, T.U. Privacy, secondo cui “la validità, l'efficacia e l'utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale” . E' evidente che l'intento del legislatore è stato quello di evitare caducazioni automatiche di atti e documenti introdotti in un processo, temperando la sanzione di cui all'articolo 11 D. Lgs. 196/03. Tuttavia, in materia penale la sanzione dell'inutilizzabilità è confermata; di fatti, il rinvio è all'articolo 191 c.p.c., che sancisce l'inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (con le uniche eccezioni di cui all'articolo 189 c.p.p. per le prove cd atipiche e all'articolo 234 c.p.p. per le prove documentali). In materia civile, invece, è difficile delineare una regola generale. Si deve di fatti rilevare che, mentre in ambito penale è il legislatore che ha disposto preventivamente la sanzione dell'inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione delle disposizione di leggi, in ambito civile manca una regola di tal tipo. La valutazione circa l'ammissibilità delle prove è lasciata al giudice (art. 183 c.p.c.), salvo che disposizioni speciali prevedano diversamente. In altri termini, se nel processo penale si può affermare con certezza che prove assunte violando la normativa Privacy si debbano considerare inutilizzabili, nel processo civile ciò non è disposto preventivamente dalla legge e l'inutilizzabilità non è automatica conseguenza; sarà il giudice a dover valutare circa la loro utilizzabilità, caso per caso e usufruendo del potere discrezionale che gli è concesso dalla legge (art. 116 c.p.c.). Centro Nazionale Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori http://www.diritto.net/il-foro-civile/182/4548-privacy-e-famiglia-diritti-e-limitazioni-nellacquisizione-e-utilizzo-delle-prove.html