Violazione della privacy: condanna a 10 anni di un hacker americano

Leggere di una condanna a dieci anni di prigione per diffusione, senza il consenso degli interessati, via internet, di foto altrui, non sempre pudiche, può stupire se l’organo giurisdizionale che ha emesso la sentenza è il “District Judge” di Los Angeles James Otero. Com’è infatti noto, l’ordinamento statunitense, in cui, più di centoventi anni fa, veniva elaborato in sede dottrinale “the right to be let alone”, non solo non tutela espressamente a livello costituzionale la privacy (ma neanche, a dirla tutta, implicitamente, almeno come valore autonomo) ma ha scoperto, dopo l’11 novembre del 2001, l’importanza del dato personale veicolato attraverso il web non tanto per tutelarlo ma, piuttosto, per consentirne l’appropriazione da parte degli apparati governativi, spesso senza la consapevolezza del titolare del dato, in nome della protezione del bene supremo della sicurezza nazionale. Il Patrioct Act docet a questo riguardo. I fatti all’origine della decisione di ieri hanno fatto presto il giro del mondo. Un trentacinquenne è riuscito ad impossessarsi della password di posta elettronica di una assai ben introdotta responsabile di agenzia di moda, ed ha quindi inviato dall’account di quest’ultima richieste di foto senza veli, o quasi, a molti dei contatti dell’ignara signora, per lo più protagoniste dello show business hollywoodiano, che hanno prontamente risposto inviando il materiale richiesto. Materiale fotografico che però è finito subito dopo alla mercé della rete, insieme a quello di due ignare sconosciute delle cui immagini l’hacker si era illegittimamente appropriato. Due riflessioni sono necessarie. La prima: evidentemente non c’è soltanto la violazione della privacy alla base di una sentenza di condanna cosi restrittiva della libertà personale come quella che si commenta: il protagonista della vicenda è infatti stato condannato per nove dei ventisette capi di imputazione tra cui, in primis, accesso abusivo a sistema informatico e furto di identità. Il che però non far venire meno il carattere esemplare della decisione che in un Paese in cui si tende a credere che la privacy sia diritto ancillare deve servire da deterrente per riflettere sull’effetto di amplificazione della intrusività di determinate ingerenze nella vita privata, quando quest’ultima diventa accessibile, almeno in potenza, a ogni individuo sul globo che abbia accesso ad internet. La seconda: sembra che il Giudice americano nelle sue motivazioni, non ancora disponibili, si sia concentrato, per determinare la gravità della sanzione, non tanto sulle doglianze di personaggi famosi che, a suon di avvocati, richiedevano una punizione per l’effetto negativo, anche reputazionale, che la diffusione incontrollata di immagini private poteva avere sulla loro carriera, piuttosto, sulla storia, molto meno da copertina, delle due donne “comuni” i cui dati personali e in certi casi sensibili avevano imboccato, all’ insaputa delle interessate, la via senza ritorno del web. È allora la tutela della riservatezza dell’utente “medio” su internet che assurge a parametro fondamentale della decisione, e la sanzione detentiva per la sua violazione né una logica conseguenza. http://www.diritto24.ilsole24ore.com/avvocatoAffari/mercatiImpresa/2012/12/violazione-della-privacy-possibile-condanna-a-10-anni-di-un-hacker-americano.html